L’art. 27, co.1, Cost. sancisce che “la responsabilità penale è personale”. Il nostro ordinamento punisce personalmente l’autore del reato, ma nel caso in cui il reato sia stato commesso da una persona fisica appartenente ad un ente è sempre stata esclusa una responsabilità di quest’ultimo in forza del principio penalistico del societas delinquere non potest.
Soltanto con il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 è stata prevista una disciplina sulla responsabilità dell'ente da reato e ciò ha costituito una radicale innovazione dell’ordinamento penale, il quale in virtù del principio succitato considerava la persona fisica quale unica possibile destinataria del reato.
Con il suddetto decreto legislativo si introduce, quindi, nel nostro ordinamento una responsabilità dell'ente che va in parallelo alla responsabilità della persona fisica che ha materialmente commesso il reato, laddove quest’ultima fa parte dell’ente e commetta taluno dei reati tassativamente indicati nel decreto legislativo succitato agli artt. 24 e seguenti, nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso,
L’art. 9 L. n. 123/2007 ha introdotto nel D.Lgs. n. 231/2001 l’art. 25 septies, poi modificato dal D.Lgs. n. 81/2008, estendendo così la responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro anche ai delitti di omicidio colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e delle norme sulla tutela dell’igiene e della salute sui luoghi di lavoro.
Quale ulteriore criterio oggettivo di imputazione all'ente del reato-presupposto, l’art. 5, comma 1 del d.lgs. n. 231 del 2001, richiede che questo sia commesso “nel suo interesse o a suo vantaggio”, anche non esclusivo.
Rileva che il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine societaria/aziendale è attribuibile alla responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro, sulla scorta del nesso di immedesimazione organica, come viene confermato dalla Suprema Corte, la quale ha affermato che “l’ente non è chiamato a rispondere del fatto altrui, bensì proprio, atteso che il reato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da soggetti inseriti nella compagine della persona giuridica deve considerarsi tale in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega i primi alla seconda” (Cass. Pen., Sez. VI, n. 27735 del 18.02.2010), precisando ulteriormente che “per affermare la responsabilità dell’ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale.” (Cassazione penale sez. IV, 23/05/2018, n.38363).
Il datore di lavoro può tutelarsi dall’azione penale se dimostra di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire i reati della specie di quello verificatosi, come previsto dall’art. 30 T.U. 81/2008 e così ovviare alla responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro.
Le disposizioni del D.Lgs. n. 81/2008 che si riferiscono ai modelli di organizzazione sono essenzialmente due. L’art. 2, comma 1, lett. dd) descrive il MOG come “modello organizzativo e gestionale per la definizione e l’attuazione di una politica aziendale per la salute e sicurezza ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 231/2001, idoneo a prevenire i reati di cui agli artt. 589 e 590, c. 3, c.p. commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute sul lavoro”. L’art. 30 precisa, poi, il contenuto del MOG, stabilendo gli elementi indispensabili ai fini dell’esimente in ordine alla responsabilità dell’ente per infortunio sul lavoro in relazione ai delitti di omicidio e di lesioni colpose.
Il MOG previsto dal D.Lgs. n. 81/2008 si caratterizza, rispetto a quello già contemplato nel D.Lgs. n. 231/2001, per le seguenti novità: la forma scritta ad substantiam per la documentazione degli adempimenti di legge (comma 2); la presunzione di idoneità del modello adottato in conformità alle linee guida UNI-INAIL e al BS OHSAS 18001:2007 (comma 5); il riconoscimento del ruolo della commissione permanente di cui all’art. 6 nella indicazione dei modelli di organizzazione e delle procedure semplificate per le piccole e medie imprese (commi 5, ultimo periodo, e 5 bis).
Importante ricordare che il MOG ha una duplice finalità: organizzativa (mappatura e gestione del rischio di commissione dei reati presupposto -art. 25 septies) e di controllo (per garantire la continua verifica ed effettività tra i comportamenti concreti ed il MOG adottato).
Il modello organizzativo, dunque, consente di far fronte alla responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro e, quindi, tutelarsi in via preventiva alfine di evitare la contestazione del reato, anche se nessuna presunzione iuris et de iure dell’idoneità dello stesso a prevenire i reati può ritenersi operante, poiché la valutazione sull’efficacia e sull’effettività del modello concretamente adottato dall’ente resta affidata al giudice penale.
Il Modello considerato nell'art. 30 d.lgs. 81/2008 non esaurisce la globalità del Modello, ma viene a caratterizzare la parte dello stesso finalizzata alla prevenzione dei reati-presupposto di cui all'art. 25 septies. L'art. 30 d.lgs. 81/2008, in relazione alla parte di Modello oggetto di sua considerazione, non si caratterizza infatti per un “obbligo normativo” di adozione, costituendo invece un “onere organizzativo” al pari degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001 in relazione al Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo nella sua completezza. (https://www.rivista231.it/Articoli/2009/2/365/)
Si precisa pertanto che, esattamente come previsto dagli artt. 6 e 7, D.Lgs. n. 231/2001, l’art. 30, D.Lgs. 81/2008 non pone un obbligo normativo di adozione della sezione del modello considerata, ma prevede esclusivamente un onere organizzativo.
Ha difatti acclarato la Suprema Corte (Cass. Pen. 17/9/2009 n. 36083) che “il dettato normativo ex D.Lgs. n.231/2001 non stabilisce in alcun modo l’obbligo per gli enti di adottare modelli organizzativi, i quali costituiscono esclusivamente una condizione esimente della responsabilità dell’ente. Ne consegue che l’omessa adozione di detto modello non può costituire automaticamente una responsabilità dell’impresa, dovendosi individuare l’elemento costitutivo soggettivo di responsabilità dell’ente, che non può che consistere nella colpa.”
Il nuovo testo dell'art. 25 septies descrive tre fattispecie di illecito dell’ente, sanzionate con pene diverse e proporzionate alla gravità del fatto per responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro. Ciascuna di esse prevede la commissione di tre diverse ipotesi delittuose: il delitto di cui all'art. 589 c.p. (omicidio colposo), commesso con violazione dell'art. 55, comma 2, d.lgs. 81/2008; il medesimo delitto commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro; il delitto di cui all'art. 590, comma 3, c.p. (lesioni colpose gravi o gravissime), commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Detto articolo ricollega alla responsabilità dell’ente titolare del rapporto di lavoro sanzioni pecuniarie ed interdittive. In riferimento a queste ultime si va dall’applicazione di sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2 per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno (per le fattispecie di omicidio colposo) all’applicazione delle stesse sanzioni interdittive per una durata non superiore a sei mesi (per le fattispecie di lesioni gravi o gravissime).
Tale ultimo articolo distingue le quattro categorie di sanzioni - pecuniarie, interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza - previste per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, specificando, al comma 2, che le sanzioni interdittive sono: a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
L’obbiettivo del sistema è, comunque, favorire il risarcimento danni attraverso un premio al datore di lavoro. Difatti, il risarcimento tardivo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 78 D.Lgs. 231/2001, può portare alla conversione delle sanzioni interdittive in pecuniarie consentendo così la prosecuzione della propria attività e il ripristino delle condizioni di legalità.
Mi sia permesso esprimere delle personali, ma oggettive, considerazioni in ordine alla scarsa applicabilità, a tutt’oggi, dell’ art. 25 septies D.Lgs. n. 231/2001 alfine di addebitare la responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro. E’ fatto notorio, difatti, che le Procure di Provincia in particolare, poco applicano la normativa succitata, che laddove adottata porterebbero più facilmente al risarcimento del danno delle parti offese per il carattere premiale che prevede la normativa.
Sosteneva, difatti, un esperto pubblico ministero (non per caso operava a Torino) che data la “discrezionalità” della materia (il P.M. non ha un controllo sull’esercizio o meno dell’azione amministrativa e, peraltro, ove abbia inviato l’informazione di garanzia all’ente, se non procede alla contestazione dell'illecito amministrativo a norma dell'articolo 59, emette decreto motivato di archiviazione degli atti, comunicandolo al procuratore generale presso la corte d'appello, senza passare per il giudice delle indagini preliminari) si permetteva di “spingere” il datore di lavoro a risarcire il danno rappresentandogli le ulteriori sanzioni, al di là della personale responsabilità penale, nonché la gravità delle stesse che potevano essere, addirittura, annullate laddove al risarcimento si accompagnava il ripristino della legalità.
Un altro Procuratore della Repubblica sosteneva da parte sua che, ove si desse applicazione completa al D.Lgs. 231/2001, l’Italia fallirebbe per quante aziende finirebbero sul lastrico. Cosa che potrà essere anche condivisibile seppur dimostra, inequivocabilmente, quanto sia ampia la discrezionalità del pubblico ministero di procedere o meno all' annotazione dell’illecito amministrativo nel registro delle notizie di reato di cui all’art. 335 c.p.p., come sancito dall’art. 55 D.Lgs. n. 231/2001. Mi è personalmente capitato di incappare in una persistente refrattarietà di una giovane P.M., ma altresì forse di un altrettanto giovane giudice dell’udienza preliminare, che certamente più per inesperienza della materia specifica che altro, hanno disatteso l’applicabilità dell’ art. 25 septies D.Lgs. n. 231/2001 in un caso di omicidio colposo per infortunio sul lavoro i cui datori di lavoro erano stati regolarmente rinviati a giudizio.
Gli addetti ai lavori si domanderanno cosa c’entri il giudice dell’udienza preliminare. Ebbene, come da insegnamento delle Sezioni Unite (Cass. pen. Sez. Unite, 1/2/2008 n. 5307: “ In questa prospettiva occorre collocare il potere del giudice dell'udienza preliminare di trasmettere gli atti al Pubblico Ministero per il nuovo esercizio dell'azione penale, qualora quest'ultimo rimanga inerte di fronte allo specifico provvedimento ordinatorio dello stesso giudice che abbia richiesto la revisione dell'imputazione, secondo il modulo contestativo - endofasico - predisposto dall'art. 423 c.p.p..”), a parere dello scrivente, il giudice avrebbe dovuto quanto meno sollecitare il P.M. di procedere all'accertamento dell'illecito amministrativo, ma ciò non fa fatto potendo, nel suo diritto, omettere , come ha omesso, qualunque motivazione sul punto. Ed anche qui ampio spazio alla discrezionalità del giudice.