La responsabilità civile del datore di lavoro può essere di natura contrattuale o extracontrattuale.
Nel primo caso trattasi di violazione conseguente all’inadempimento del contratto di lavoro a cui è conseguito il danno al lavoratore; nel secondo caso quando il danno sia causato dal datore di lavoro in violazione del principio generale del neminem laedere .
Alla violazione degli obblighi in materia di sicurezza imposti al datore di lavoro dal T.U. 81/2008, come anche quelli previsti da leggi speciali unitamente alla previsione di cui all’ art. 2087 c.c., consegue la responsabilità civile del datore di lavoro di natura contrattuale.
La responsabilità civile del datore di lavoro per gli infortuni occorsi al lavoratore è dettata da norme che derogano in parte ai princìpi generali in tema di responsabilità civile. Egli ha l’obbligo sempre e comunque di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori: sia dotandoli di misure di sicurezza corrette, sia impartendo loro un’adeguata formazione professionale.
Le fattispecie che possono integrare la responsabilità civile del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sono molte e la casistica è smisurata.
Detta norma obbliga il datore di lavoro a predisporre tutte le misure dettate dalla “particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica.”
Questa previsione rappresenta che, anche laddove il T.U. 81/2008 o le leggi speciali non prevedano informazioni specifiche, il datore di lavoro è sempre obbligato ad adottare ogni misura di sicurezza, ogni cautela, ogni dispositivo, ogni accorgimento, che secondo le specificità del singolo lavoratore e lo stato della tecnica appiano necessarie od utili a garantire l’incolumità del lavoratore.
La giurisprudenza parla difatti di norma di “chiusura” del sistema antinfortunistico: essa, pertanto, si applica a tutti i casi non previsti dal legislatore e tale da configurare la responsabilità civile del datore di lavoro in caso di violazione.
Recentemente, a conferma del pacifico orientamento, la Suprema Corte (Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 25-02-2021, n. 5255) ha acclarato che: “ la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori”
“Naturalmente la medesima condotta può integrare gli estremi sia dell’inadempimento, sia del fatto illecito: in tal caso è facoltà del danneggiato domandare il risarcimento o ai sensi dell’art. 1218 c.c., oppure ai sensi dell’art. 2043 c.c. Le due domande potranno anche essere proposte nello stesso processo, ma ovviamente in via subordinata l’una all’altra.” (Responsabilità dell'imprenditore, Responsabilità del datore per gli infortuni occorsi al lavoratore, a cura di Marco Rossetti).
L’azione contrattuale è, comunque, preferibile in considerazione della circostanza che la prescrizione è decennale, ai sensi dell’art. 2946 c.c., mentre l’azione aquiliana si prescrive, in base all’art. 2947 c.c., in cinque anni, salvo i casi in cui il fatto è considerato dalla legge come reato con la conseguente responsabilità civile del datore di lavoro.
Inoltre, la responsabilità contrattuale da cui scaturisce la responsabilità civile del datore di lavoro in caso di infortunio del dipendente, si basa sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c., mentre l’azione extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva.
È principio oggi pacifico che la domanda di risarcimento del danno derivante dalla responsabilità civile del datore di lavoro, formulata jure proprio dai congiunti del lavoratore deceduto a causa di un infortunio sul lavoro, cioè quali soggetti estranei al rapporto di lavoro, è soggetta al rito ordinario (anche se la morte del dipendente sia derivata da inadempimento contrattuale del datore di lavoro verso il dipendente ex art. 2087 c.c.) trattandosi di responsabilità extracontrattuale (Cass. civ. Sez. III, Sent.,16-04-2015, n. 7684; Cass. Civ. Sez. III, Sent., 17/1/2018, n. 907; Cass. civ., Sez. Lav., Sent. 02/01/2020, n. 2).
Un problema di particolare rilevanza, in ordine alla responsabilità civile del datore di lavoro, si pone nel caso in cui gli eredi del lavoratore avanzino, congiuntamente al danno parentale e/o psichico proprio, il danno terminale o catastrofale (formido mortis) che, considerato iure successionis, quindi danno proprio del lavoratore, sposterebbe la competenza al giudice del lavoro, con la conseguenza della separazione delle domande e trasmissione di quella iure hereditatis al giudice del lavoro.
In verità la giurisprudenza ormai da tempo ammette l’azione contrattuale ed extracontrattuale per dimostrare la responsabilità civile del datore di lavoro e la possibilità di avvalersi, alternativamente, dell’una o dell’altra azione, come già su precisato, qualora dalla violazione dell’obbligo contrattuale di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano a questi indipendentemente dal rapporto di lavoro. (Cass. civ., 8 aprile 1995, n. 4078 in C.E.D. Cass. Rv. 491703 – 01).
Se la domanda per la responsabilità civile del datore di lavoro viene formulata congiuntamente iure proprio (danno dei congiunti per infortunio mortale) e iure hereditatis (danno del lavoratore che ha avuto coscienza della sua morte o formido mortis), qualificandola espressamente alfine di evitare fraintendimenti come azione extracontrattuale - ad esempio ex art. 185 c.p. secondo il quale ogni reato obbliga non solo alle restituzioni a norma delle leggi civili, ma anche al risarcimento del danno (ex art. 2043 c.c.) - essa resta assorbita in toto dal giudice ordinario.
Nel caso in cui l’azione sia invece proposta ex art. 2087 c.c., ovvero in violazione delle norme del T.U. 81/2008 o, comunque, la si colleghi alla violazione del rapporto di lavoro, da cui poi scaturisce il diritto del lavoratore al danno catastrofale, essa va avanzata dinanzi al giudice del lavoro ritenendosi che trattasi di diritto proprio del lavoratore con possibilità di assorbire anche la domanda iure proprio in caso di infortunio sul lavoro mortale.
Ovviamente la domanda avanzata dal lavoratore infortunato in violazione del rapporto di lavoro resta devoluta al magistrato in funzione di giudice del lavoro.
In un infortunio mortale i congiunti avevano adito il Tribunale , in funzione di giudice del lavoro, sia per il risarcimento del danno iure hereditatis che per il danno iure proprio rispettivamente patito dal de cuius e derivati dal decesso del loro congiunto. Eccepita l'incompetenza funzionale del giudice del lavoro relativamente alla domanda proposta dai ricorrenti in proprio, la Suprema Corte (Cass. civ. Sez. VI, Ord., 09-01-2018, n. 298) ha acclarato che “...deve escludersi in radice l'applicabilità dell'art. 40 c.p.c.: anche qui, deve prestarsi adesione ai principi espressi da questa Corte secondo cui nel caso di pendenza di cause connesse davanti a giudici diversi del medesimo Tribunale non può trovare applicazione l'art. 40 c.p.c. ma è necessario dare attuazione al procedimento previsto nell'art. 274 c.p.c..”
E così il Tribunale di Firenze, Sez. Lav., 25 marzo 2019, n. 290 secondo cui “ tutte le domande risarcitorie spiegate dai ricorrenti, e, quindi, sia, quelle proposte iure hereditario, sia, quelle proposte iure proprio, debbano essere trattate nelle forme del processo del lavoro ex art. 409 e ss. c.p.c. (trattasi di questione di rito e non di competenza), deponendo in tal senso, sia, ragioni di economia processuale e certezza del diritto scaturenti circostanza che tutte le pretese azionate nel presente giudizio implicano l’accertamento del medesimo fatto storico, sia, il dettato dell’art. 40 c.p.c. (v. Cass. civ., sez. lav., n. 18503/2016).”
Di diverso avviso il Tribunale di Cassino (N. R.G. 1408/2019 - Ordinanza 8/2/2021, Dr. Virgilio Notari) il quale nel ritenere che “ l'art. 40 c.p.c., come novellato dalla legge 26/11/1990, n. 353, consente nello stesso processo il cumulo di domande soggette a riti diversi solo in presenza di ipotesi qualificate di connessione (artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c.), escludendo così la possibilità di proporre nello stesso giudizio più domande, connesse soggettivamente ai sensi dell'art.33 c.p.c. e dell'art.103 c.p.c., ma regolate da riti diversi (Cass. 30/8/2004, n. 17404);” ha disposto la separazione delle domande proposte iure proprio (di competenza del giudice orinario) e iure hereditatis (di competenza del giudice del lavoro) rimettendo gli atti al Presidente di Sezione per l’eventuale assegnazione del fascicolo della causa separata a un magistrato in servizio presso l’Area Lavoro del Tribunale.
Ci preme ricordare sul punto due principi, già su evidenziati nella pronuncia del Tribunale di Firenze, ovvero l’economia del giudizio e la certezza del diritto che sono richiamati da più pronunce della Suprema Corte (ex multis Cass. civ. 21-09-2016, n. 18503) che, seppur nel diverso caso della riunione dell’impugnazione ha precisato: “ Questa Corte ha affermato, infatti, (cfr. Cass. SSUU n. 1521/2013, e nello stesso senso Cass. n.7568/2014, n. 10534/2015) che "La riunione delle impugnazioni, che è obbligatoria, ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ., ove investano lo stesso provvedimento, può altresì essere facoltativamente disposta, anche in sede di legittimità, ove esse siano proposte contro provvedimenti diversi ma fra loro connessi, quando la loro trattazione separata prospetti l'eventualità di soluzioni contrastanti, siano ravvisabili ragioni di economia processuale ovvero siano configurabili profili di unitarietà sostanziale e processuale delle controversie.” Ed altresì la Corte Costituzionale (Ord. 25-03-2005, n. 124) secondo cui “…è altrettanto consolidata nell'affermare che l'esigenza del simultaneus processus non è elevata a regola costituzionale, ma si configura quale mero espediente processuale finalizzato (ove possibile) all'economia dei giudizi ed alla prevenzione del pericolo di giudicati contraddittori (di recente, ordinanze n. 90 del 2002 e n. 398 del 2000);”.