Un’ impiegata presso la Procura della Repubblica di Firenze aveva avanzato domanda nei confronti dell’INAIL al fine di ottenere l'indennità di malattia per inabilità assoluta temporanea oltre all'indennizzo corrispondente ad un danno permanente del 10%, in relazione ad un infortunio occorsole lungo il tragitto che stava percorrendo a piedi, in rientro da una breve pausa caffè.
Recatasi, difatti, presso un vicino bar per effettuare, insieme a due colleghe, la cosiddetta pausa caffè di metà mattina era caduta in tale frangente mentre percorreva il breve tragitto a piedi procurandosi un trauma al polso destro.
Accolta la domanda sia in primo che secondo grado, l’INAIL promuoveva ricorso in Cassazione avverso la decisione della Corte d’appello di Firenze.
Con Ord. Cass. Civ., Sez. Lav., 8/11/2021 n.32473 la Suprema Corte accoglieva il ricorso dell’INAIL ed acclarava che è da escludere la indennizzabilità dell'infortunio subito dalla lavoratrice durante la pausa caffè al di fuori dell'ufficio giudiziario ove prestava la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè, posto che la lavoratrice, allontanandosi dall'ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio, si era volontariamente esposta ad un rischio non necessariamente connesso all'attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa ed incidente.
Per completezza va sottolineato che il Tribunale (la Corte d'appello aveva confermato le motivazioni del primo giudice) aveva riconosciuto che il rischio assunto dalla lavoratrice non poteva considerarsi generico atteso che la pausa caffè era stata autorizzata dal datore di lavoro ed era assente il servizio bar all'interno dell'ufficio.
Da ciò conseguiva, a parere dei giudici di merito, la permanenza del nesso eziologico con l'attività lavorativa, ritenendo che l'evento fosse connesso ed accessorio all'attività di lavoro e non ricorresse una ipotesi di rischio elettivo.
Ma, ciononostante, la Corte di legittimità riteneva del tutto irrilevante la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro in ordine a tali consuetudini dei dipendenti, non potendo una mera prassi, o, comunque, una qualsiasi forma di accordo tra le parti del rapporto di lavoro, allargare l'area oggettiva di operatività della nozione di occasione di lavoro.
La questione di diritto che si è posta è quella della corretta interpretazione dell'art. 2 del d.P.R. n. 1124 del 1965, secondo la quale l'assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro.
Sul punto i giudici supremi hanno sottolineato che la giurisprudenza si è andata orientando (Cass. n. 6088/1995) nel senso di ritenere che la causa violenta in occasione di lavoro, richiesta dall'art. 2 del TU 1124/1965 per la indennizzabilità dell'infortunio, è quella che dà occasione, appunto, ad alterazioni lesive legate alla prestazione lavorativa da nesso di derivazione eziologica, non essendo l'assicurazione infortuni, finalizzata a coprire i rischi generici, a prescindere cioè dall'esplicazione dell'attività lavorativa.
Richiamando un precedente orientamento (Cass. 3744/1993) ha puntualizzato che l'indennizzabilità non consegue alla mera circostanza che l'infortunio si sia verificato nel tempo e nel luogo della prestazione lavorativa, occorrendo invece, come requisito essenziale, la sussistenza del nesso tra lavoro e rischio, nel senso che il lavoro determina non tanto il verificarsi dell'evento quanto l'esposizione a rischio dell'assicurato.
Ha quindi dedotto che il rischio può esser quanto meno "improprio" ma giammai "elettivo" (scaturito cioè da una scelta arbitraria del lavoratore, il quale, mosso da impulsi, e per soddisfare esigenze, personali, crei ed affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente all'attività lavorativa, pur latamente intesa, con ciò stesso ponendo in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento) concludendo che nella nozione di "occasione di lavoro" così delineata, si esprime il requisito della professionalità del rischio, corrispondente alla specificità della tutela.
Ne deriva che, secondo la Corte, non può essere ricondotta alla "occasione di lavoro" l'attività, non intrinsecamente lavorativa e non coincidente per modalità di tempo o di luogo con le prestazioni dovute, che non sia richiesta dalle modalità di esecuzione imposte dal datore di lavoro o in ogni caso da circostanze di tempo e di luogo che prescindano dalla volontà di scelta del lavoratore.
La recentissima pronuncia della Suprema Corte ( 8/11/2021 n.32473 )ha così stabilito che la lavoratrice, allontanandosi dall'ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio per una pausa caffè, si è volontariamente esposta ad un rischio non necessariamente connesso all'attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa ed incidente.
Ci sia consentito però sottolineare un aspetto che non risulta essere stato oggetto di esame nella pronuncia suindicata, ovverosia che era assente il servizio bar all'interno dell'ufficio.
Gli ermellini prendono in esame la circostanza della tolleranza espressa dal soggetto datore di lavoro motivandone l’irrilevanza, ma omettono ogni apprezzamento sull’assenza del servizio bar all'interno dell'ufficio alfine di effettuare una pausa caffè.
Anche se è doveroso ricordare che la legge non prevede specificamente la pausa caffè, ma prevede una pausa giornaliera, che può essere, comunque, utilizzata anche per prendere il caffè, riteniamo possa quanto meno ritenersi opinabile che, nella fattispecie, si sia trattato di una scelta arbitraria del lavoratore.
Proprio a voler seguire il pensiero della Suprema Corte, non è fuor di logica ritenere che si sia trattato di una scelta legittimata da circostanze di tempo e di luogo (mancanza del servizio bar) che prescindono dalla volontà di scelta del lavoratore, potendosi forse anche discutere sul concetto da questi ultimi espresso di procrastinabilità ed impellenza di una pausa caffè, considerata l’importanza oggettivamente riconosciuta alla stessa, dal popolo italiano, quale strumento utile per il recupero di energie psicofisiche.
Viene da riflettere sul punto se si considera che sempre la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 15973 del 18 luglio 2007, ha dettato un vero e proprio Abc delle pause tollerate, quelle, cioè, che obbligano il datore e l’Inail a risarcire il dipendente in caso di infortunio “in itinere” puntualizzando che le soste voluttuarie di pochi minuti non escludono la tutela dell’infortunio in itinere”
Quel che ci fa riflettere è che in una situazione di “quasi necessità” per l’impossibilità di effettuare la pausa caffè all’interno dell’ufficio e, comunque, autorizzata dal datore di lavoro con cartellino timbrato in uscita ed altresì, come si legge in sentenza, considerata una “esigenza pur apprezzabile”, si esclude l’ indennità di malattia e, quindi, l’indennizzo, laddove lo si riconosce per gli infortuni in itinere per soste voluttuarie, ma brevi.