Le lesioni subite dal lavoratore infortunato, se imputabili ad una condotta colposa (per negligenza, imperizia, imprudenza) del datore di lavoro, sono punibili anche in sede penale ai sensi dell’art. 590 c.p.. Nel caso di infortunio mortale sul lavoro si avvierà, invece, un’indagine per omicidio colposo punibile ai sensi dell’art. 589 c.p..
A questo punto la scelta della parte offesa danneggiata, sia del lavoratore in caso di lesioni personali o malattia, sia dei prossimi congiunti, in caso di infortunio mortale, sarà di valutare se avanzare la domanda di risarcimento danni in sede penale, attraverso la costituzione di parte civile, ovvero instaurare direttamente una causa civile.
Perché costituirsi parte civile?
In genere perché la parte o i prossimi congiunti vogliono “vigilare” sulle concrete modalità di esercizio dell’azione penale ad opera della Procura e dei giudici che decideranno.
È evidente che, in questo caso, ciò che interessa alla vittima (o ai suoi successori universali) è una presenza attenta e attiva nell’esercizio delle facoltà e dei poteri processuali riconosciuti dal codice di procedura penale.
Ovvero per “sfruttare” la preoccupazione dell’imputato sugli esiti del processo e così spingere ad una più rapida e congrua offerta risarcitoria.
L’imputato, difatti, ha tutto l’interesse che la parte civile non sia presente nel processo penale a suo carico dovendosi altresì considerare che, in caso di di condanna, l’avvenuto risarcimento del danno costituisce una circostanza attenuante con conseguente riduzione della pena.
Un’altra delle ragioni per la scelta della presenza nel processo penale, invece dell’azione civile nella sede propria, attiene al regime probatorio. Qui è il pubblico ministero che si attiva per provare la responsabilità dell’imputato che giova anche alle pretese civili del danneggiato ed il giudice può esercitare d’ufficio poteri di integrazione probatoria che quello civile non ha. Non senza dimenticare che l’esame testimoniale della persona offesa/danneggiato costituito parte civile può essere posta a fondamento della condanna dell’imputato anche se è necessario vagliare la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità intrinseca del suo racconto.
Da escludere la costituzione di parte civile se si presume che la contestazione di reato sia infondata o comunque appaia dubbia atteso che in sede penale si legittima la condanna solo quando l’imputato risulti colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio”, mentre in sede civile ci si “accontenta” di un grado di certezza inferiore, identificato nel c.d. principio del “più probabile che non” o, come anche spesso viene definito, preponderanza dell’evidenza.
Stesso discorso se si presume che il reato andrà prescritto già in primo grado atteso che, in tal caso, il giudice rimetterà al giudice civile per le richieste della parte civile. Ovviamente non è una previsione facile da farsi ma che, un attento difensore, valuterà soprattutto tenuto conto del tipo di reato contestato e tutte le volte in cui il rinvio a giudizio dell’imputato sia effettuato a distanza di molti anni da quando è stato commesso il reato.
Da tener presente l’opportunità di una costituzione di parte civile, solo ove si sia in grado di prospettare al giudice un valore economico “oggettivo” del proprio danno, supportandolo almeno con principi di prova specifica dovendosi tener conto che difficilmente il Giudice del processo penale, nel condannare l’imputato anche al risarcimento del danno, ne liquida l’importo totale, limitandosi ad una provvisionale e rinviando la liquidazione del danno alla sede civile.
Così come da tener presente che una condanna generica al risarcimento dei danni in primo grado, specialmente se non accompagnata dall’assegnazione di una provvisionale, congela il risarcimento del danno fino all’ espletamento dei gradi dell’impugnazione promossi dall’imputato, con implicazioni evidenti sul tempo di attesa per il definitivo effettivo ristoro del proprio danno.
La valutazione tecnica se costituirsi parte civile o instaurare direttamente l’azione civile richiede un’attenta valutazione del caso di specie e, pertanto, la difesa della parte offesa/danneggiato, oltre a dover essere in possesso delle competenze specifiche per un’assistenza efficace, deve essere quindi in grado di cogliere sia il “senso economico” della vicenda alfine di condurre il giudice ad una quantificazione accettabile, come provvisionale o sentenza parziale provvisoriamente esecutiva, sia l’intenzione della persona offesa.
Salvo, pertanto, una ferma volontà a voler essere presente nel processo penale, qualunque ne sia la motivazione, appare inopportuna una costituzione di parte civile che non sia diretta ad ottenere già nel processo penale tutto o molto di quanto dovuto e non sia sorretta da scelte ed azioni tecniche per giungere a tale scopo, fornendo elementi probatori al Giudice penale anche in ordine alla quantificazione del danno, per consentirgli di pronunciarsi nell’ambito del processo penale anche sulla sua liquidazione.
Il datore di lavoro o comunque il garante della posizione di garanzia risponde del reato di cui agli artt. 589 e 590 c.p., a seconda che la sua condotta colposa abbia causato una lesione del lavoratore o addirittura la sua morte.
E infatti, se vi è stato un infortunio, vi saranno di norma delle lesioni, e le lesioni colpose costituiscono una fattispecie di reato.
Pertanto, il giudice civile, investito di una domanda di risarcimento proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro ravviserà sempre l’elemento oggettivo del reato, perché vi saranno quanto meno delle lesioni; riterrà poi sussistente l’elemento soggettivo (colpa) in via presuntiva, in tutti i casi in cui il datore non riesca a fornire la prova liberatoria d’avere tenuto una condotta diligente.
Da ciò consegue la possibilità di richiedere il risarcimento del danno da reato con un’ordinaria azione civile nel processo civile, promossa con un atto di citazione contro il responsabile.
L’art. 185 c.p. precisa difatti che: “Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.”
Il riferimento al "reato" contenuto nell'art. 185 non richiede la ricorrenza di una concreta fattispecie di reato, ma solo di una fattispecie corrispondente nella sua oggettività all'astratta previsione di una figura di reato. Con la conseguente che in sede civile è possibile avvalersi delle presunzioni di colpa senza che occorra dimostrare l'esistenza in concreto del reato.
Nel caso, poi, in cui il responsabile fosse stato già condannato con sentenza definitiva, la condanna penale avrà effetto anche nel processo civile ed in questo caso il lavoratore dovrà provare soltanto l’ammontare del danno subito e non più la responsabilità.
Per completezza, ricordiamo, fanno eccezione le sentenze di condanna a seguito di giudizio abbreviato, quando la parte civile non ha accettato il rito, le sentenze di patteggiamento e i decreti penali di condanna.
Comunque il lavoratore infortunato ha possibilità di avanzare la sua domanda sia sotto il profilo della responsabilità contrattuale che quella extracontrattuale per ottenere il risarcimento dei danni nei confronti del datore di lavoro.
La duplicità degli strumenti di tutela deriva dal contemporaneo operare di due istituti: il generale principio del neminem laedere a tutela del diritto all’integrità psicofisica, che spetta al lavoratore indipendentemente dal rapporto di lavoro, nonché l’obbligo contrattuale, stabilito dall’art. 2087 c.c. a carico dell’imprenditore, di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del proprio dipendente.
La giurisprudenza ormai da tempo ammette l'azione contrattuale ed extracontrattuale nella materia degli infortuni sul lavoro e la possibilità di avvalersi, alternativamente, dell’una o dell’altra azione, qualora dalla violazione dell’obbligo contrattuale di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore sia derivata anche la lesione dei diritti che spettano a questi indipendentemente dal rapporto di lavoro.
Va precisato, comunque, che l’esercizio della azione contrattuale è soggetta alla prescrizione ordinaria, di durata decennale, ai sensi dell’art. 2946 c.c., mentre l’azione aquiliana si prescrive, in base all’art. 2947 c.c., in cinque anni, salve le ipotesi in cui il fatto è considerato dalla legge come reato e per questo è stabilita una prescrizione più lunga che viene applicata anche all’azione civile.
Inoltre la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, in caso di infortunio del dipendente, si fonda sulla presunzione di colpa stabilita dall’art. 1218 c.c., mentre l’azione extracontrattuale pone a carico del danneggiato la prova della colpa o del dolo dell’autore della condotta lesiva.
Tuttavia per ottenere il risarcimento del danno, il lavoratore deve dimostrare il fatto costituente l’inadempimento, e cioè la nocività o pericolosità dell’ambiente di lavoro; di aver subito un danno in seguito all’infortunio ed il suo ammontare; il nesso causale tra l’inadempimento ed il danno.
Non dovrà, invece, il lavoratore provare la colpa del datore, nei cui confronti opera la presunzione ex art. 1218 c.c. salvo che la richiesta venga avanzata dai prossimi congiunti nel caso di infortunio mortale, nel qual caso si verte in tema di responsabilità aquiliana, extracontrattuale (art. 2043 c.c.).
Quale danno potrà chiede il lavoratore infortunato o i prossimi congiunti in casi di infortunio mortale?
Il lavoratore infortunato, oltre alla copertura assicurativa INAIL, potrà chiedere al datore di lavoro il risarcimento di tutti i danni subiti, patrimoniali e non patrimoniali, il c.d. danno differenziale, ovvero quello maggiore rispetto a quello indennizzato o indennizzabile dall’INAIL, ovvero quello che esula dalla copertura assicurativa INAIL.
Va puntualizzato, però, che una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi: conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità e conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili (cd. personalizzazione del danno). E tanto le prime che le seconde conseguenze costituiscono un danno non patrimoniale
Si parla in materia di danno biologico definito come danno alla “lesione all’integrita’ psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona” (articolo 13, decreto legislativo 38/2000).
Nel caso di infortunio mortale, invece, i prossimi congiunti potranno vantare un danno iure proprio, ovverosia un danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale ma altresì, ove sussista, il danno catastrofale iure successionis da lucida agonia (terminale), riconosciuto nel caso in cui il lavoratore abbia avuto coscienza della propria fine.
L’art. 27, co.1, Cost. sancisce che “la responsabilità penale è personale”. Il nostro ordinamento punisce personalmente l’autore del reato, ma nel caso in cui il reato sia stato commesso da una persona fisica appartenente ad un ente è sempre stata esclusa una responsabilità di quest’ultimo in forza del principio penalistico "societas delinquere non potest".
E’ così intervenuto il decreto legislativo n. 231/2001 che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato fissando per la prima volta nell’ordinamento italiano la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i reati commessi al loro interno nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso.
Sino ad allora le persone giuridiche non venivano considerate centri di imputazione della responsabilità penale. Ma siccome molti reati si perseguivano attraverso le attività imprenditoriali, a mezzo persone giuridiche, e così delinquere attraverso gli organi e i singoli soggetti che la compongono, si è deciso che la persona giuridica dovesse rispondere per le condotte penalmente rilevanti.
Ne consegue che accanto alla persona fisica che ha commesso il reato si aggiunge quella della persona giuridica, per reati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente da soggetti funzionalmente collegati all’ente.
Trattasi di reato per colpa di organizzazione, ovverosia per non aver predisposto una serie di accorgimenti idonei ad evitare la commissione dei reati
Dal 2001 ad oggi la lista dei reati presupposto si è notevolmente ampliata, ma quel che interessa la materia degli infortuni sul lavoro si incentra sull’art. 9 L. n. 123/2007 il quale ha introdotto nel D.Lgs. n. 231/2001 l’art. 25 septies, poi modificato dal D.Lgs. n. 81/2008.
Detta norma, difatti, ha esteso la responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro anche ai delitti di omicidio colposo e lesioni colpose commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e delle norme sulla tutela dell’igiene e della salute sui luoghi di lavoro.
Il nuovo testo dell'art. 25 septies descrive tre fattispecie di illecito dell’ente, sanzionate con pene diverse e proporzionate alla gravità del fatto per responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro. Ciascuna di esse prevede la commissione di tre diverse ipotesi delittuose: il delitto di cui all'art. 589 c.p. (omicidio colposo), commesso con violazione dell'art. 55, comma 2, d.lgs. 81/2008; il medesimo delitto commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro; il delitto di cui all'art. 590, comma 3, c.p. (lesioni colpose gravi o gravissime), commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Detto articolo ricollega alla responsabilità dell’ente titolare del rapporto di lavoro sanzioni pecuniarie ed interdittive. In riferimento a queste ultime si va dall’applicazione di sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2 per una durata non inferiore a tre mesi e non superiore ad un anno (per le fattispecie di omicidio colposo) all’applicazione delle stesse sanzioni interdittive per una durata non superiore a sei mesi (per le fattispecie di lesioni gravi o gravissime).
Tale ultimo articolo distingue le quattro categorie di sanzioni - pecuniarie, interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza - previste per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, specificando, al comma 2, che le sanzioni interdittive sono: a) l'interdizione dall'esercizio dell'attività; b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione
dell'illecito; c) il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; d) l'esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi; e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.
L’obbiettivo del sistema è, comunque, favorire il risarcimento danni attraverso un premio al datore di lavoro. Difatti, il risarcimento tardivo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 78 D.Lgs. 231/2001, può portare alla conversione delle sanzioni interdittive in pecuniarie consentendo così la prosecuzione della propria attività e il ripristino delle condizioni di legalità.
Il datore di lavoro può tutelarsi dall’azione penale se dimostra di aver adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOG) idoneo a prevenire i reati della specie di quello verificatosi, come previsto dall’art. 30 T.U. 81/2008 e così ovviare alla responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro.
Il modello organizzativo, dunque, consente di far fronte alla responsabilità dell'ente per infortunio sul lavoro e, quindi, tutelarsi in via preventiva alfine di evitare la contestazione del reato, anche se nessuna presunzione iuris et de iure dell’idoneità dello stesso a prevenire i reati può ritenersi operante, poiché la valutazione sull’efficacia e sull’effettività del modello concretamente adottato dall’ente resta affidata al giudice penale.
Il D.Lgs 81/ 2008 stabilisce le misure finalizzate alla tutela della salute e alla sicurezza dei lavoratori negli ambienti di lavoro sia privati che pubblici.
La finalità della normativa attiene alla ricerca dei rischi lavorativi, alla loro valutazione e conseguente eliminazione o contenimento del rischio con l’obiettivo di evitare danni al lavoratore.
Alfine di perseguire lo scopo previsto dal T.U. è previso il coinvolgimento attivo di vari “soggetti”, titolari di obblighi e sanzioni che necessitano di una un'adeguata “formazione” e “informazione”.
L’articolo 18 del D. Lgs. 81/08 sancisce l'obbligo per il datore di lavoro di provvedere affinché ciascun lavoratore riceva una corretta formazione e informazione sui rischi e l'organizzazione della sicurezza nell'azienda, e quindi una formazione sufficiente e adeguata in materia di sicurezza e di salute.
Con recente normativa (L. 17 dicembre 2021 n. 215 di conversione del c.d. "Decreto Fisco-Lavoro" D.L. 21 ottobre 2021 n. 146), recante “misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela anche della sicurezza sul lavoro e per esigenze indifferibili” sono state emanate nuove misure in materia di sicurezza sul lavoro.
Una delle novità più importanti in materia di sicurezza sul lavoro è senz’altro il rafforzamento della formazione che, con la nuova normativa, è divenuta obbligatoria anche per i datori di lavoro.
Quindi, con la conversione in legge del D.L. 146/2021, oltre ai dirigenti, preposti e lavoratori, anche il datore di lavoro è tenuto a svolgere l’attività di formazione e aggiornamento in materia di salute e sicurezza sul lavoro, con necessità di addestramento pratico sulle attrezzature utilizzate dai lavoratori.
Si è in sostanza operata una completa equiparazione del datore di lavoro ai dirigenti e ai preposti in riferimento all’obbligo di ricevere una formazione adeguata e specifica e un aggiornamento periodico in base ai compiti in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
L’ordinamento prevenzionistico, a fronte della posizione di garanzia datoriale, individua un livello di responsabilità intermedio, rappresentato dalla figura del dirigente, che dirige l'attività produttiva, un suo settore o una sua articolazione. Tale soggetto non porta però le responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali, ma ha poteri posti ad un livello inferiore, solitamente rapportati anche all'effettivo potere di spesa.
Ad uno stadio sottostante vi è poi un terzo livello di responsabilità, che riguarda la figura del preposto che sovrintende alle attività e che quindi svolge funzioni di supervisione e controllo sulle attività lavorative concretamente svolte.
In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in base al principio di effettività, assume la posizione di garanzia colui il quale di fatto si accolla e svolge i poteri del datore di lavoro, del dirigente o del preposto.
L’articolo 2, lett. f) del TU 81/08 definisce poi il “«responsabile del servizio di prevenzione e protezione»: persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all'articolo 32 designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per coordinare il servizio di prevenzione;” ed il successivo art. 17 prevede che il datore di lavoro non può delegare la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi. Da qui l'importanza della sua figura nel sistema della sicurezza.
L’unico caso che costituisce una eccezione di carattere esimente, è quello contemplato dall’articolo 34 TU 81/2008 il quale prevede che, rispettate alcune condizioni, il datore di lavoro stesso assuma l’incarico e le funzioni di RSPP dai rischi, dandone preventivamente comunicazione alle rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza.
I compiti dell’RSPP sono dettagliatamente previsti dall’art. 33 TU 81/2008, che può essere sia un interno dell’azienda (dipendente) che un professionista esterno, generalmente un ingegnere o un architetto, tant’è che l’art. 55 prevede una sanzione penale in caso di mancata nomina.
La sua mansione si caratterizza per lo svolgimento, all'interno della struttura aziendale, di un ruolo non gestionale ma di consulenza, cui si ricollega un obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti, ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori.
Il ruolo di professionista e l’importanza che la normativa attribuisce al servizio di prevenzione e protezione espongono il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione ad una pluralità di responsabilità, sia di natura civile che di natura penale.