Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 24/08/2023, n. 25217
In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. n. 1124 del 1965 deve essere interpretata nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno cd. differenziale, sia nel caso dell'azione di regresso proposta dall'Inail, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all'elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Lucia - Presidente -
Dott. LEONE Margherita - Consigliere -
Dott. RIVERSO Roberto - Consigliere -
Dott. PAGETTA Antonella - Consigliere -
Dott. BOGHETICH Elena - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20226-2019 proposto da:
A.A., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato ANDREA BONUCCELLI;
- ricorrente -
contro
B.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 13, presso lo studio dell'avvocato LORENZO PORCACCHIA, rappresentato e difeso dall'avvocato FABRIZIO MIRACOLO;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1048/2018 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 13/12/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/06/2023 dal Consigliere Dott. ROBERTO RIVERSO.
La Corte d'appello di Firenze con sentenza n. 1048/2018 pubblicata il 13/12/2018 ha respinto l'appello di A.A., lavoratrice domestica, avverso la sentenza di primo grado che aveva rigettato la sua domanda volta a far dichiarare che la responsabilità dell'infortunio subito in data (Omissis), mentre era intenta al lavoro su una scala per procedere alla rimozione delle tende, fosse ascrivibile al datore di lavoro B.B., che doveva quindi essere condannato a risarcirle i danni come quantificati in atti.
La Corte d'appello a fondamento della decisione, premetteva che il lavoratore che agisca per riconoscimento del risarcimento del danno per infortunio sul lavoro deve provare oltre al fatto costituente l'inadempimento anche l'esistenza di un nesso di causalità tra l'inadempimento ed il danno alla salute subito; e rilevava, quanto alla dinamica dei fatti, che nella fattispecie la domestica A.A. avesse il compito di occuparsi di lavare le tende della casa del B.B. nei cambi di stagione; per poter arrivare a sfilare le tende dagli appositi ganci era necessario salire su uno scaleo; di solito l'operazione veniva effettuata con l'ausilio dello stesso B.B., mentre nel caso di specie la A.A. al momento del fatto aveva deciso di occuparsi della rimozione delle tende dall'apposito sito, mentre risultava che il B.B. si fosse assentato temporaneamente per andare a svolgere alcune commissioni nei negozi sottostanti la sua abitazione; mancava quindi, secondo la Corte d'appello, la prova che fosse stato il B.B. ad impartire alla A.A. l'ordine di compiere quella operazione pur in sua assenza; inoltre non vi era prova alcuna che lo scaleo usato non possedesse una base stabile o antiscivolamento; nè certo la presenza di un tappeto sul quale lo scaleo sarebbe scivolato poteva essere addebitabile al datore di lavoro assente, potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione A.A. con vari motivi a cui ha resistito con controricorso B.B..
Sono state depositate memorie ex art. 380 bis 1 c.p.c. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell'art. 380 bis 1, comma 2, ult. Parte c.p.c.
1.- Con il primo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in particolare dell'art. 2087 c.c. dell'art. 1218 c.c. ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. atteso che la ricorrente aveva dimostrato l'esistenza del rapporto di lavoro, dell'infortunio e del nesso di causalità tra l'impiego di un determinato strumento di lavoro e il danno subito, sicchè doveva essere il datore di lavoro a dimostrare i aver adottato tutte le misure cautele necessarie ad evitare il danno, dal momento che la lavoratrice aveva subito l'infortunio lavorando e senza aver messo in atto alcun comportamento abnorme.
2.- Con il secondo motivo di ricorso è stata sollevata la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in particolare dell'art. 2087 c.c. e dell'art. 2697 c.c., ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., atteso che la sentenza impugnata, così come quella di primo grado, avevano completamente sovvertito la regola di giudizio consacrata nell'art. 2697 c.c. attribuendo l'onus probandi ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni così disarticolando la ridetta regola processuale;
3. Con il terzo motivo viene dedotto vizio di motivazione per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non avendo i giudici considerato che in occasione del sinistro la ricorrente non facesse altro che svolgere il proprio lavoro, eseguendo le mansioni che alla stessa erano affidati quale domestica e tra le quali rientrava anche quella dello smontaggio delle tende nel periodo primaverile. Nessun rilievo è stato dato alla circostanza allegata dalla lavoratrice che il fatto storico oggetto di causa, l'infortunio, fosse avvenuto durante lo svolgimento delle mansioni lavorative impartite alla ricorrente e mediante l'utilizzo di una scala messa a disposizione dal datore di lavoro stesso; risultava dagli atti di causa che di prassi venisse utilizzata la scala per eseguire le pulizie senza che fosse stata fornita la prova che lo strumento dato in dotazione alla lavoratrice per svolgere la mansione fosse affidabile e rispondesse alle prescrizioni di sicurezza; mentre risultava pacifico e non contestato che la ridetta scala fosse una normale scala di uso familiare priva di appoggi antisdrucciolevoli e di ganci di trattenuta. Il vero fatto decisivo era che la lavoratrice stesse eseguendo la propria prestazione lavorativa come sempre, svolgendo una delle mansioni che richiedeva l'utilizzo della scala messa a disposizione del datore di lavoro, che medio tempore si allontanava omettendo di vigilare e indicare specifiche prescrizioni in sua assenza; la ricorrente non poneva in essere una condotta caratterizzata da abnormità, inopinabilità nè avulsa dalla prestazione lavorativa e certamente non spettava a lei dimostrare la mancata specificazione delle misure di sicurezza adottabili.
4.- I motivi di ricorso devono essere decisi congiuntamente per la connessione delle censure sollevate e sono fondati.
Ed invero risulta consolidata in dottrina ed in giurisprudenza la tesi secondo cui la responsabilità datoriale conseguente alla violazione delle regole dettate in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro abbia natura contrattuale, perchè il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ex art. 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza che entra così a far parte del sinallagma contrattuale (v. così da ultimo Corte Cost. n. 15/2023), ovviamente nella ampiezza che deriva dalla declinazione che lo stesso obbligo legale assume in base a tutte le misure e cautele costituenti l'ordinamento protettivo della sicurezza (art. 18 del D.Lgs. n. 81 del 2008, c.d. T.U. per la sicurezza), oltre che in base all'art. 2087 c.c. 5.- Il datore di lavoro deve quindi rispondere degli stessi eventi lesivi occorsi al lavoratore sulla base delle regole della responsabilità contrattuale (e quindi in base alla prescrizione decennale, all'inversione dell'onere della prova e nei limiti dei danni prevedibili); e la sua responsabilità può discendere da fatti commissivi o da comportamenti omissivi.
Una valenza decisiva assume nell'impianto della tutela il già ricordato art. 2087 del codice civile il quale - con formula che conserva ancora intatta l'originaria vis innovativa - stabilisce che "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
6.- La Corte di Cassazione ha sempre sostenuto in proposito che qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell'illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell'obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all'espletamento della prestazione lavorativa); occorre pur sempre l'elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza.
7.- La necessità della colpa - che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana - va però coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale che è quello previsto dall'art. 1218 c.c. (diverso da quello di cui all'art. 2043 c.c.); cosicchè grava sul datore "debitore di sicurezza" l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione, mentre il lavoratore creditore deve provare sia la lesione all'integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa.
8.- L'oggetto sostanziale dell'onere della prova a carico del datore è quindi assai ampio, posto che esso attiene, come già si è detto, al rispetto di tutte le prescrizioni specificamente dettate dalla legge, oltre che a quelle suggerite dalla esperienza, dall'evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto. Si tratta anzitutto della valutazione dei rischi, dell'organizzazione dell'apparato di sicurezza, dell'informazione, della formazione, dell'addestramento dei lavoratori, dell'adozione di tutte le misure prescritte, della vigilanza per come partitamente delineate nel citato Tu n. 81/2008.
9.- La comune interpretazione giurisprudenziale nega comunque recisamente che si possa mai parlare di responsabilità obiettiva come regola di imputazione dei danni, ammettendo infatti il datore di lavoro alla prova decisiva della mancanza della propria colpa. Per affermare la responsabilità civile del datore non basta quindi un infortunio o una malattia professionale; dato che la più peculiare caratteristica della responsabilità contrattuale (che vale a distinguerla da quella extracontrattuale ex art. 2043 c.c.) è data, sul piano probatorio, dall'esenzione del creditore dall'onere di provare la colpa del debitore inadempiente (la violazione delle regole di diligenza del debitore).
10.- Ai sensi dell'art. 1218 c.c. perciò è dato al debitore - e quindi nel rapporto di lavoro il datore - di provare che l'inadempimento derivi da causa a lui non imputabile. Comunemente si dice che la colpa del debitore si presume fino a prova contraria o più propriamente che esista un'inversione dell'onere probatorio, nel senso che il debitore è ammesso a provare l'assenza di colpa, pur sempre elemento essenziale della sua responsabilità contrattuale.
11.- Se così è dunque, nel rapporto di lavoro, a fronte di un infortunio o di una malattia professionale, questo assunto si traduce nella facoltà per l'attore di invocare la responsabilità contrattuale del datore provando il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate. Non spetta invece al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, nè individuare le regole violate, nè le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso.
12.- La responsabilità del datore discende, dunque, pur sempre dalla violazione di regole a contenuto cautelare (nessuna responsabilità senza colpa); e non si potrà automaticamente desumere l'inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il solo fatto che si sia verificato il danno. Certamente, il verificarsi dell'infortunio o della malattia non implica necessariamente la colpa (la violazione del TU 81/2008 o dell'art. 2087 c.c.), ma semplicemente lo fa presumere; di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte.
13.- Non basta un danno alla salute (un infortunio o una malattia) per affermare la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che non abbia fatto il possibile per evitare il danno; nè è sufficiente la costatazione del nesso di causalità tra il lavoro e la lesione. Occorre piuttosto valutare sempre la condotta tenuta dal datore di lavoro per evitare l'evento; solo che questa valutazione - ancorchè si discuta di danni differenziali (v. Cass. n. 12041 del 19/06/2020) - deve essere introdotta nel processo civile dal datore medesimo; il quale dovrà allegare e provare di aver rispettato le cautele imposte dalla legge (valutazione dei rischi, apprestamento dei mezzi, informazione, vigilanza, ecc.) ovvero quelle suggerite dalla tecnica o dall'esperienza alla luce della concreta situazione di fatto (ex art. 2087 c.c.); ed a maggiore ragione quando l'esecuzione del contratto di lavoro sottopone il lavoratore ad un particolare pericolo insito nella specifica mansione, com'è quella da svolgersi in altezza.
14.- Venendo ora al caso di specie, va rilevato che la Corte di appello ha rigettato la domanda del lavoratore sostenendo che mancasse la prova che fosse stato il B.B. ad impartire alla A.A. l'ordine di compiere quella operazione pur in sua assenza; affermando che non vi fosse prova alcuna che la scala usata dalla lavoratrice non possedesse una base stabile o antiscivolamento; ed inoltre che non avesse alcun rilievo, ai fini della responsabilità del datore, il posizionamento di un tappeto sotto la scala "potendo essere facilmente rimosso dalla lavoratrice".
Ma attraverso tali affermazioni la Corte d'appello ha all'evidenza capovolto l'onere della prova della colpa così come in precedenza ricostruito, dal momento che si trattava di requisiti riferiti al comportamento che il datore di lavoro sarebbe stato tenuto ad adottare per evitare l'evento (ovvero alla assenza della sua colpa, intesa quale obbligo di diligenza nella predisposizione di misure idonee a prevenire il danno), e che egli era pertanto tenuto ad allegare e provare nel giudizio; dimostrando quindi, da una parte, di aver ordinato alla ricorrente di non provvedere a quella mansione in sua assenza e nelle circostanze date (con un tappeto sotto la scala); e dall'altra parte, di averla dotata di una scala idonea in quanto rispondente a tutte le prescrizioni di sicurezza (sia per le sue caratteristiche intrinseche, sia per il suo posizionamento e le modalità di utilizzo nell'ambiente dato).
Risulta, inoltre e per di più, che tali affermazioni di tenore negativo (sulla mancanza delle prove indicate) siano state pure effettuate dai giudici di merito senza mai ammettere (nè in primo, nè in secondo grado) le prove sui fatti contrari allegati in giudizio dalla ricorrente. Tutto ciò risulta testualmente dalla stessa sentenza impugnata avendo la Corte affermato che il primo giudice senza ammettere le prove richieste, "istruita la causa documentalmente, decideva per il rigetto del ricorso per mancato assolvimento dell'onere della prova che gravava su A.A. in relazione alla sussistenza dell'inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di sicurezza".
4.- Deve essere in proposito rilevato che - come pure ribadito peraltro, ma esclusivamente sul piano teorico, dalla stessa Corte di appello - la lavoratrice dovesse provare soltanto "il fatto costituente l'inadempimento" (da intendersi come il fatto dell'infortunio sul lavoro), ma non dovesse provare certo la colpa del datore (ovvero appunto la sussistenza dell'inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di sicurezza, come affermato dal primo giudice e ritenuto pure corretto dal giudice di appello); essendo piuttosto il datore ad avere l'onere di provare di aver messo a disposizione della lavoratrice una scala di lavoro idonea, di provare le direttive impartitele anche a carattere inibitorio in relazione alla particolare situazione di fatto ed alla mansione in questione e dimostrare la dovuta vigilanza ed ogni altra accortezza richiesta dalla natura della prestazione (pericolosa in quanto da svolgersi in altezza).
5.- Il punto è chiarito bene, nei suoi termini essenziali, da una risalente ed autorevole giurisprudenza (Sez. L, Sentenza n. 9817 del 14/04/2008) secondo cui: "La responsabilità ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell'art. 1374 c.c.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, sicchè il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 c.c. sull'inadempimento delle obbligazioni. Ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno".
E tale statuizione costituisce pure il cuore della recente importante decisione con cui questa Cassazione (n. 12041 del 19/06/2020), a seguito di un'ampia e coerente disamina, ha risolto la questione particolarmente complessa del rapporto tra pregiudizialità penale ed oneri di allegazione e prova ai fini del riconoscimento del danno differenziale ed artt. 10 e 11 del TU 1124/65; riportando la regola nell'ambito del suo alveo naturale della responsabilità contrattuale, secondo i principi generali già richiamati.
La Corte ha infatti statuito che: "In tema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la disciplina prevista dagli artt. 10 e 11 del D.P.R. n. n. 1124 del 1965 deve essere interpretata nel senso che l'accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore per la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno cd. differenziale, sia nel caso dell'azione di regresso proposta dall'Inail, deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all'elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso".
Infine, quanto all'ampiezza della diligenza richiesta al datore di lavoro in relazione alle circostanze del caso concreto, merita di essere ricordato come questa Corte di Cassazione abbia chiarito puntualmente che il datore di lavoro rimanga responsabile non soltanto in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma anche per la omessa predisposizione di tutte le misure e cautele idonee a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo (sentenza n. 15112 del 15/07/2020).
Alla stregua delle premesse il ricorso deve essere dunque accolto, la sentenza impugnata va cassata ed il giudizio rinviato alla Corte d'appello di Firenze per la prosecuzione della causa di merito, in adesione ai principi di cui ai punti precedenti, e per la liquidazione delle spese processuali, anche del presente giudizio di Cassazione.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della insussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'art. 13 comma 1 bis del citato D.P.R. n.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia per la prosecuzione del giudizio e la liquidazione delle spese processuali alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della insussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'art. 13 comma 1 bis del citato D.P.R. n. Così deciso in Roma, il 14 giugno 2023.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2023